Giovanni Franco

Giornalista dell'Ansa
Cronista dell'immagine 

La storia in breve

“Solo la fotografia ha saputo dividere la vita umana in una serie di attimi, ognuno dei quali ha il valore di una intera esistenza”
Eadweard Muybridge
Ruota intorno a queste affermazioni la filosofia con la quale Giovanni Franco, – giornalista dell’Ansa ed ex redattore del quotidiano L’Ora, – si rapporta con la scrittura per immagini. Una lunga passione la sua. 
Ha cominciato scattando con le reflex analogiche, negli anni ’70, sviluppando e stampando le foto, autonomamente in camera oscura, giocando con le sfumature del bianco e nero o con i colori delle diapositive. 
Ha esposto le sue foto in diverse mostre a partire dagli anni ’80, tra le quali quella nei locali dell’Università di Palermo sul mercato della Vucciria e al teatro Libero di Palermo.
Poi il passaggio, alla fine degli anni ’90, al sistema digitale, prediligendo le fotografie a colori.

Le fotografie

Le foto scattate sono state pubblicate, oltre che nel circuito dell’Ansa, anche sui quotidiani:
L’Ora, la Repubblica, Corriere della Sera, Il Piccolo, La città di Salerno, Il Poliedro e come sigla nella trasmissione TGR Mediterraneo su Raitre.

Hanno scritto delle sue foto

Accursio Soldano, Angelo Meli, Bianca Stancanelli, Enrico Del Mercato, Enzo d’Antona, Evelina Santangelo, Federica Certa, Francesco Carbone, Francesco Mazzapelle, Giulio Giallombardo, Giuseppe Lazzaro Danzuso, Ignazio Marchese, Laura Grimaldi, Lillo Gullo, Luca Mazzone, Mariella Pagliaro, Milena Romeo, Nicola Cristaldi, Nicolò D’Alessandro, Nuccio Anselmo Rosanna Rizzo, Salvatore Giacalone, Valeria Ferrante, Valerio Morabito, Vincenzo Lombardo, Vito Orlando.

Le mostre

- Cromatica muraria tra scenario e struttura. Per rassegna incontrazione.
Laboratorio universitario a Palermo
- Mercato della Vucciria in chiaro e scuro.
Locali dell'Università di Palermo
- La vita recitata ad altezza uomo.
Museo Mandralisca di Cefalù
- L'isola a colori vista da Giovanni Franco. Viaggio fotografico in Sicilia.
Castello di Mola (ME)
- ObiettiVita
Complesso monumentale "Filippo Corridoni" - Mazara del Vallo
- Sentieri Provenzali
Club culturale - Castellana Sicula
- Brani di Sicilia
Libreria Ausonia a Palermo
- Corso Sicilia
Palazzo D'Amico a Milazzo
- Scatti d'ali
Sala partenze Aeroporto Falcone & Borsellino a Palermo
- Paesaggi Temporali
Foyer della Sala Strehler del Teatro Biondo a Palermo
- La città congelata
Chiostro del giardino Al Fresco a Palermo
- Green Pass
Palazzo dei Benedettini, sede del Municipio di Cinisi
- Quell'estate in mascherina
Villa Cianciafara a Messina
- Festival Marenostrum
Mazara del Vallo (TP)
- Sguardi fedeli
Biblioteca Claudio Catalfio di Terrasini
- Il Canto della Casbah
Sala Fumagalli – Martorana di villa Butera - Bagheria

Le pubblicazioni

Parole a scatti

Nella collana "Coup de foudre", diretta da Accursio Soldano per la Aulino editore con testi di Rita Baio, Attilio Bolzoni, Laura Bonelli, Domenico Catagnano, Riccardo Catagnano, Salvatore Ferlita , Rocco Mortelliti, Giuseppe Recca e introduzione di Enzo d’Antona.

Scattaiolando

Ebook di immagini tra Sicilia e Francia, a cura di Flora Graiff.

Oltre la rete

È autore con Nicola Cristaldi del libro “Mazara del Vallo, oltre la rete”, edizioni Libridine.

Il Canto della Casbah

Libro reportage a tutto tondo che ripercorre i vicoli, le storie e le persone di Mazara del Vallo, tramite i racconti di Nicola Cristaldi, ex Sindaco di Mazara del Vallo, e le fotografie di Giovanni Franco

UVZETA

Ha pubblicato, nel 1983, una fotografia nella rivista bimestrale d'arte e cultura "UVZETA". 
La penna di Francesco Carbone ha raccontato le abilità di ripresa e di taglio dell'immagine dell'autore.

Il lavoro da cronista

Da cronista ha scritto articoli su vari argomenti: economia, politica, cultura e spettacoli.
Ha diretto il mensile "Assemblea"
Ha collaborato con la Rai e con il settimanale "Il mondo" della Rcs

Le sue foto raccontate da...

Per leggere le parole di ogni autore, fai click sul nome presente nell'elenco
Enzo d'Antona
Bianca Stancanelli
Valerio Morabito
Milena Romeo
Nicola Cristaldi
Giulio Giallombardo
Lillo Gullo
Luca Mazzone
Federica Carta
Rosana Rizzo
Nella prima estate del Covid si sono viste in Italia mutazioni strane. Balli liberatori e forsennati nelle discoteche briatoresche, riti collettivi di rimozione del fantasma dell’antilibertà che si aggirava per l’Italia, cioè lo spettro della malattia. Forse un giorno a spiegare quelle sindromi interverrà un trattato di psichiatria sociale. Ma per ora limitiamoci a guardare la vita agostana ai tempi del virus con una lente diversa e facciamoci qualche domanda. Davvero non c’era un altro modo possibile di difendere l’estate? Per esempio una pacata e colorata allegria dei piccoli gesti?
Ecco dunque la parola chiave per definire le fotografie di Giovanni Franco. Allegria. Egli ne è un difensore strenuo, prima di tutto nella vita e poi con il suo obiettivo. È sempre riuscito a sfuggire - sembra quasi un miracolo - alla cifra stilistica di base dei fotografi siciliani presi dalla solita tragedia che incombe su di noi. La cosa che artisticamente gli interessa di più della Sicilia sono i colori, che rappresentano da soli il suo autentico topos narrativo-fotografico. Infatti gli altri, i soggetti, ci mettono la faccia e Giovanni ci mette il colore. Quel colore con il quale intesse storie e visi di anziani con mascherine abbassate, ragazze distratte e felici, venditori di lattuga, angoli di strada e bar con tavoli all’aperto dove il contrasto sole-ombra già ci proietta nella più classica e scanzonata estate meridionale. Ecco l’antidoto non al Covid ma all’angoscia che è il suo indotto.
Ma torniamo all’allegria. Guardando in sequenza queste foto viene in mente un grande poeta uruguaiano di origine italiana, Mario Benedetti: “Difendere l’allegria come una trincea…difenderla dallo sbalordimento e dagli incubi…dalle dolci infamie e dalle gravi diagnosi”. E ancora: “Difendere l’allegria come una bandiera, difenderla dal fulmine e dalla malinconia…dalle vacanze e dalla fatica, dall’obbligo di essere allegri”.
Negli scatti di Giovanni Franco sull’estate del 2020 non c’è infatti niente di triste. E questa è solo in parte una scelta istintiva. La sensazione infatti è che la decisione - cosa fotografare, come farlo - sia frutto in grande misura di tecnicalità, dal momento che Giovanni Franco è soprattutto un giornalista di lungo corso avvezzo a una sapienza comunicativa di tipo professionale. Viene il dubbio insomma che in queste foto non ci sia nulla di improvvisato e che l’allegria presente e la tristezza assente – a dispetto del Covid e dell’estate scontentissima che esso ci ha imposto – siano una specie di manifesto politico dell’autore. Che ci invita, e quasi ci obbliga, a cercare a ogni costo il nostro piccolo quotidiano angolo di allegria.
La difesa dell'allegria
Enzo d'Antona
Ha scritto Gesualdo Bufalino che l’obiettivo fotografico agisce come «una terza più crudele e infallibile pupilla» che ha il compito di «censire, tesaurizzare e ripetere all’infinito l’effimero universo delle apparenze». La pupilla di Giovanni Franco si è qui esercitata a far memoria della prima estate dell’era del Covid-19, restituendoci immagini, colori, serenità e allegrie di una stagione che non sospettavamo fosse soltanto un intervallo tra l’una e l’altra inquietudine, l’una e l’altra angoscia.
Ci sono molte mascherine in questa galleria d’immagini: indossate correttamente, scivolate sul mento o sul collo, messe in mostra in un negozio d’abbigliamento, beffardamente imposte alla statua di padre Pio. Mascherine bianche, azzurre, a bolle, colorate, con sovrimpresse labbra a canotto, come per un malriuscito ritocco estetico. E c’è un documento di incantevole ironia: accanto a un cartello scritto a mano, appeso all’ingresso di un bar o di una bottega per ammonire che senza mascherina non si entra, appare una sarabanda di Pulcinella scatenati, ognuno con mascherina sì, ma sugli occhi e sul naso, com’è d’obbligo per quell’icona della più spavalda napoletanità. Sberleffo scanzonato per rischiarare d’allegria l’obbligo di mascheramento collettivo.
Una foto mi piace particolarmente, per la sua carica simbolica: l’immagine del verduraio che, con gli occhiali inforcati sulla mascherina e i guanti, rifila con un coltello un cespo di lattuga. Nella calda luce di una giornata estiva, il bianco immacolato della mascherina (con valvola di sicurezza), l’azzurro dei guanti e il verde della lattuga sembrano scintillare e la nitidezza dei contorni suggerisce la prudenza, forse perfino la diffidenza che ispira ormai anche il più quotidiano dei gesti. Quel verduraio che affronta l’insalata travestito da chirurgo evoca il senso più profondo della pandemia: l’ansia di doverci difendere dalla natura, madre del virus, dopo averla a lungo sfidata. E viene da pensare al «dolore del mondo offeso» che angustiava l’arrotino filosofo della Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini.
Anche il verduraio prudente è un campione di quell’Italia che resiste che Giovanni Franco è andato rintracciando sulle spiagge affollate dell’estate, ai bordi delle fontane, sui prati dei parchi, sugli scogli che i gabbiani condividono con i pescatori, sui gradini delle chiese dove gli innamorati si scambiano baci e promesse, ai tavolini dei bar. È un catalogo di momenti sereni, la cronaca del ritorno al semplice piacere di vivere dopo i mesi bui e spaventati del lockdown.
«… basterà frugare fra questi cimeli», cito ancora Bufalino, «perché questa o quella giornata risorga, d’un tempo antico e perduto, sotto il duplice ma compatibile segno della prossimità più vivace e della lontananza più gelida». Così adesso, inoltrandoci nell’autunno del nostro scontento, guardiamo la radiosa ragazza che accenna un sorriso tra un’onda e l’altra, in un trionfo di spuma, per ritrovare la speranza in una nuova estate di libertà.
Quell'estate, intervallo tra l'una e l'altra inquietudine
Bianca Stancanelli, giornalista e scrittrice
Lo sguardo di Giovanni Franco va oltre la linea, si posiziona al di là di quello che di solito si potrebbe cogliere. E questo è un paradosso. Sì, perché per vedere la quotidianità il giornalista dell’Ansa si è dovuto posizionare «uber die linie».
È la quotidianità, quella che ormai si fa fatica a raccontare…e fotografare – I turisti che da Taormina salgono a Castelmola e visitano uno dei borghi più belli d’Italia, quando entreranno nel Museo del Castello di Mola in cui è esposta la mostra del giornalista Giovanni Franco, “L’isola a colori vista da Giovanni Franco. Viaggio fotografico in Sicilia”, dal 16 al 26 luglio, potrebbero rimanere delusi. O meglio, potrebbero rimanerci male quelli che si sono fatti un’idea stereotipata della Sicilia. Tra t-shirt del Padrino, don Corleone, coppole, lupare e litanie varie, entrare nel Museo e vedere i paesaggi siciliani, gli sfondi, i volti, il mare nelle foto di Giovanni Franco potrebbe far sorgere la domanda: ma dove sono state scattate queste foto? La risposta è in Sicilia, nell’isola in cui vive il collega dell’Ansa. È la quotidianità, quella che ormai si fa fatica a raccontare. Quella di cui non si parla, quella che con difficoltà finisce nei servizi dei telegiornali.
Per vedere la quotidianità Franco si è dovuto posizionare «uber die linie» – La mostra di Giovanni Franco non fa per gli appassionati della solita e poco credibile Sicilia. Non troveranno le foto in bianco e nero, quelle dei morti di mafia, dei bambini denutriti che giocavano lungo strade degradate. Come sottolineato dal giornalista, invece, si può scorgere «la Sicilia della luce, dei colori, delle immagini e delle emozioni». È questo il risultato di quasi cinque anni di lavoro in giro per la Sicilia. Lo sguardo di Giovanni Franco va oltre la linea, si posiziona al di là di quello che di solito si potrebbe cogliere. E questo è un paradosso. Si, perché per vedere la quotidianità Franco si è dovuto posizionare «uber die linie», per utilizzare una frase cara al filosofo tedesco Ernst Jünger. Una foto, in particolar modo, è quella che rappresenta un paesaggio che potrebbe essere associato a una città del centro Italia e invece è Corleone. Niente sangue, nessuna “minchia” metaforizzata tramite una coppola.
Noi siciliani abbiamo un gran bisogno di fermarci per vedere questi scatti – Giovanni Franco ha usato la fotografia per spogliare la Sicilia dai pre-giudizi che la umiliano e la degradano in tutto il mondo. Questa isola, quella che si può vedere nelle immagini di Franco, potrebbe essere un vero e proprio set cinematografico. La luce, del resto, si presta a farla diventare un palcoscenico perenne. «Però tutto questo dovrebbe essere coniugato con un’accoglienza, altrimenti si costringe un regista come Giuseppe Tornatore a girare uno dei suoi film, “Baaria”, in Tunisia», ha evidenziato Giovanni Franco che come un viandante ha percorso la Sicilia alla ricerca dell’essenza di questa terra. Il risultato è la mostra che si può ammirare a Castelmola, dove tra le 90 foto ne sono state selezionate 35 da parte della curatrice Milena Romeo: «Per fare una selezione ho seguito un criterio tecnico, ho scelto quelle foto che raccontavano meglio la luce di Sicilia. Poi ho cercato di capire a quale paesaggio e sfondo l’autore fosse più affezionato. Ho selezionato con molta fatica le foto più rappresentative. Lui non ha uno sguardo conflittuale, politico, ideologico o di denuncia. Ha uno sguardo affettivo». Mentre l’altro curatore della mostra, Giuseppe Filistad, ha detto che «Giovanni Franco fotografa la bella Sicilia» e in un momento come quello attuale abbiamo un gran bisogno di fermarci per vedere questi scatti del giornalista dell’Ansa.
Uno sguardo oltre la linea
Valerio Morabito
Ho trovato le fotografie di Giovanni Franco cercando la luce di Sicilia. Ero alla ricerca di qualcuno che raccontasse il tema della nostra Rassegna con un approccio essenziale ma poetico; che rappresentasse quella luce in cui ogni siciliano è immerso, affogato, con una tale immedesimazione e identità, che difficilmente si riesce ad oggettivare e a raccontare.
Gli occhi di Franco mi hanno guidato, il suo sguardo sincero sulle cose, garantito dalla sua sicura tecnica e dalla fedeltà ai colori dei paesaggi, di terre e mari, come gli ocra, i verdi, i celesti, gli smeraldo, i cremisi, sono fissati senza alterazioni o interpretazioni.
Questo è il paesaggio che vediamo senza guardare, questa è la prosaicità della realtà che, con lui, si trasfigura in poesia, senza eccessi mitologici o derive oniriche.
La sua Sicilia è illuminata da scene che si donano con cadenza feriale, per le quali abbiamo bisogno solo di un sestante attento, intelligente, profetico.
Il fotografo è profeta, preveggenza di ciò che accade. E Franco è un segugio curioso, avvezzo com’è a cogliere la notizia, ma anche paziente e lungimirante; uno che intuisce ciò che accade per poi fissarlo soddisfatto. Lo suggeriva lui, il maestro di tutti Henri Cartier-Bresson: la “Fotografia come attesa del momento in cui la realtà si va determinando”.
È questa l’essenza di Franco, lui, che per mole culturale e spessore intellettuale potrebbe citare, interpretare, invece è così leale e raffinato che aspetta che il mondo lo illumini e che si dispieghi sotto i suoi occhi e che si manifesti mentre lui lo respira, lo assume, vi si compenetra. “Per “significare” il mondo, bisogna sentirsi coinvolto in ciò che si inquadra nel mirino. Questo atteggiamento esige concentrazione, sensibilità, senso geometrico.” Cartier-Bresson
Mi ricorda Caravaggio in Pittura, il quale, notoriamente, incanta per come declina e fissa la cruda realtà. Così Sgarbi dice di questo aspetto del genio toscano “in lui la forza degli avvenimenti è tradotta in termini così essenziali, che sembra assistervi direttamente, come se non potessero essere accaduti che così”.
Guardare la Sicilia con l’obiettivo fotografico di Franco è come stare in prima persona di fronte allo spettacolo che solo lui ha visto, che propone come una quinta maestosa e, al contempo, minuta senza sensazionalismi, facendoci credere che questa magnifica Isola non può che scorrere così.
Le distese perfette, momenti assoluti, sono scalfiti solo da dettagli di irregolarità, di decadenza, di vissuto, di crepe accennate che possono diventare voragini o rimanere là, dove le ha scovate lui, come la foglia secca e accartocciata della Canestra di frutta di Caravaggio, i piedi impolverati degli oranti de la Madonna dei pellegrini, rughe che danno verità alle cose, ferite-feritoie.
La luce per lui è, dunque, lo strumento della sincerità e dell’essenzialità della realtà, non il velo che la mistifica, ma il tocco che dà smalto e brillantezza a ciò che la nostra Isola è, a ciò che noi siamo. Perché la coscienza della bellezza ci restituisce identità. “Noi siamo il paesaggio che abbiamo introitato” G.Campione.
La luce leale
Milena Romeo
La Fotografia di Giovanni Franco è innanzitutto essenzialista, senza scomodare le “regole della lettura” dettate da Karl Popper. Non la ricerca spasmodica del percorso degli atomi in un fenomeno ma la naturale evoluzione del tempo proiettato sugli oggetti, sulle persone, sul paesaggio, sul lavoro degli uomini, “sulla monotonia” dello scorrere del giorno. Un albero e una casa insieme come frutto della casualità colte nel momento pregnante del proprio essere in un luogo piuttosto che in un altro. La Fotografia scrive non l’attimo colto in quel momento, perché quel momento è già passato, ma anticipa il tempo che sta per venire. Franco lo sa e diventa complice di questo percorso affidandosi alla brevità dello scatto. Le foto di Giovanni Franco vanno lette più volte. Due lampade si contrappongono tramutandosi in sfere sospese e dominando l’immensità dell’albero, riducendolo a distintivo di un luogo, mentre la terra e il cielo si incontrano in una diagonale con il buio della terra e la luminosità del cielo. Una visione metafisica che “aggredisce” ogni immagine che Giovanni Franco cattura e dona in primo luogo a se stesso. Se con l’obiettivo si sa trasferire una parte di se stessi sull’immagine inquadrata, si sarà scritta una foto, altrimenti si sarà soltanto pigiato un bottone.
Giovanni Franco resta uno scrittore prestato al giornalismo che con la fotografia trasforma in concreto ciò che è tanto banale quanto straordinario: un fatto è più interessante se descritto con poche parole, se narrato brevemente lasciando al momento successivo quello che con presunzione viene detto “approfondimento”. La foto di Giovanni Franco usa poche parole, spesso infinitesimali, in millesimi di secondi, e si vendica sui lettori che per leggere quella immagine hanno bisogno di tempi inesorabili e lunghi in raffronto allo scatto. La fotografia di Giovanni Franco scorre davanti allo sguardo dell’osservatore come le note musicali si impadroniscono del silenzio di un teatro un attimo prima dell’inizio dello spettacolo.
Noi siamo la bellezza che ci è stata data
Nicola Cristaldi
Se la luce ha un profumo, la fotografia di Giovanni Franco trabocca di odori. Basta lasciarsi portare per mano, scatto dopo scatto, tra questi “Sentieri provenzali” per scoprire che anche le immagini possono avere un aroma. Non importa se pungente e deciso come le spezie in un mercato, fragrante come in una boulangerie o delicato come nei campi di lavanda. Quello che conta per lo sguardo da cronista di Franco è che la vita immortalata così com’è, fissata “in una frazione di secondo di realtà” – per citare Cartier-Bresson – non sia pura immagine, ma che evochi qualcosa che la trascenda.
Odori, appunto, ma non solo. A tratti, in queste foto che trasudano d’estate, si avverte anche lo scrosciare di un ruscello o il discreto brusio di chi, seduto ai tavolini di un bar, chiacchierando sorseggia un caffè o legge il giornale. Si sente anche il vociare di due ragazze che giocano a beach volley lì dove il mare non c’è o l’abbaiare di una coppia di cagnolini portati a spasso sui passeggini. Si può “ascoltare” il soffio di una bimba che gonfia un palloncino, il “canto” dei fenicotteri rosa o quello di un trio di voce e chitarra in piazza, per poi perdersi in un torrente che ricopre il verde della vegetazione, evocando sfumature d’acquarelli.
Negli scatti del giornalista dell’Ansa, realizzati tutti a mano libera, vive l’anima autentica della Provenza: dalle strade di Marsiglia, con la sua imponente cattedrale, all’ocra rossa di Roussillon; dalle saline viola di Aigues-Mortes, ai campi di lavanda di Aix-en-Provence. E ancora suggestioni e scorci di Cassis, Saintes Maries de la Mer, Arles, Tarascon, Bonnieux. Ci sono paesaggi dove l’uomo scompare avvolto dalla natura, architetture da cui sbucano figure che non ti aspetti, e ancora, visi, corpi, gesti dove il “silenzio” della fotografia diventa festa per i sensi.
Quel profumo di Provenza
Giulio Giallombardo
Dal mare bisogna partire. Perciò come primo atto ci portiamo sulla terrazza del Bastione di Capo Marchiafava con un brano di Gesualdo Bufalino nella testa: “Guardo per otto ore di fila cielo e mare da un alto balcone e un respiro di magra salsedine mi morde il naso, l’orizzonte tutto mi s’apre davanti come un immenso compasso…”
Al mare bisogna poi aggiungere due mirabili giganti: la Rocca, campiere della Natura, e il Duomo, gendarme del Re (e del Papa). Avvezzi a guardare la città dall’alto in basso, la loro lusinga ha sempre adombrato la minaccia. Recepito l’ambiguo messaggio, i “sudditi” avrebbero potuto reagire sdegnosamente con l’edificazione di maestosi palazzi. E sarebbe stata una devastante guerra dei mattoni: a scapito dell’armonia dell’insieme. Invece, e per fortuna, la risposta dei cefaludesi è stata declinata con la cifra dell’understatement: abitare in sobrie dimore: confortevoli ma non appariscenti. È da questo contrasto – tra la bellezza del gigantismo regale e la bellezza del minimalismo popolare – che trae origine l’impareggiabile grazia urbanistica e paesaggistica di Cefalù.
Tuttavia, detto ciò, siamo dell’avviso che la vera grande bellezza di Cefalù sia da cercare nelle strade: tutte strette ed alcune talmente strette da reclamare un nome specifico: vanelle. Fateci caso: dalle strade resta quasi sempre esclusa la vista del mare, della Rocca e del Duomo. Ed è questa l’altra faccia della medaglia del minimalismo difensivo: nel sottrarsi alla vista dei giganti-guardiani, i cefaludesi si sono a loro volta negati la vista del mare, della Rocca e del Duomo. Le strade sono così diventate il “regno” dell’uguaglianza, lo spazio orizzontale e democratico dove lo sguardo dell’uomo, affrancato dall’altezza vertiginosa delle celle campanarie e dalla lontananza incommensurabile dell’orizzonte marino, può rilassarsi e posarsi agevolmente sui suoi simili: bambini, ragazze, giovani, anziane. Un pacifico torneo di occhi che vede la fattiva partecipazione di tutti gli attori della vita urbana: dal pescatore che srotola sulla soglia la rete da rammendare al calzolaio che lavora di lesina sull’uscio della bottega. E poi: il fruttivendolo, la gioielliera, il caffettiere, la sarta, il panettiere, il muratore, la casalinga. E, naturalmente, il passante, la figura della strada che più guarda e che più è guardata e che, nella nostra narrazione, assurge a “maschera” chiave. Infatti, è solo grazie al “travestimento” da passante che il fotografo Giovanni Franco ha potuto impigliare nella sua pupilla digitale alcuni fotogrammi di questo umanissimo teatro di sguardi amorosi, curiosi, indiscreti, invidiosi, gioiosi. Fotogrammi che ora, squadernati in tutta la loro intrigante bellezza davanti ai nostri occhi, vanno a comporre un lirico canto: l’inno alla vita recitata ad altezza d’uomo.
La vita recitata ad altezza d’uomo
Lillo Gullo, giornalista e poeta
Siamo immersi nel mondo dell’immagine. Oggi tutto è immagine e non possiamo fare a meno che guardare, riflettere, rifletterci in una susseguirsi di immagini. Troppe forse, troppo banali a volte. Sicuramente il nostro occhio si è assuefatto. Dunque è sempre più difficile che una foto possa catturare la nostra attenzione per più di qualche secondo.
Giovanni Franco, invece, con le sue storie, le sue visioni, raccontate attraverso le sue fotografie, ci cattura non solo l’occhio, ma soprattutto la mente. Ogni foto, ogni architettura, persona, volto, panorama, catturato dalla sua arte di fotografo, diventa per la nostra immaginazione e la nostra mente, una storia che si avviluppa in innumerevoli rigagnoli di storie e di racconti. Così come la vita ci rapisce nel dipanarsi di un racconto, così le foto di Giovanni ci ridanno l’unica cosa che ci permette di pensare e riflettere senza cadere nel banale e nella noia: la prospettiva.
Racconti fotografici
Luca Mazzone, regista, direttore teatro Libero
“Una fotografia è un segreto intorno ad un segreto. Più rivela e meno lascia capire”. Diane Arbus, americana, ebreo-russa, cacciatrice del freak” nascosto nell’umanità più abietta e del “proibito” che rovescia le convenzioni e spalanca nuovi mondi all’arte e alla vita, non potrebbe essere più diversa, come epoca, come poetica e come approdo – tragico – al mondo di storie e visioni di Giovanni Franco.
Eppure le sue parole – solo un’idea nel mare sterminato di banalità o paradossi, dubbi e certezze che si sono scritti e detti sulla fotografia nei secoli – danno il senso di quella parte insondabile, nascosta eppure limpida, che nelle immagini del giornalista dell’ANSA palermitano cattura lo sguardo e invita a guardare oltre, a immaginare nomi e biografie, memorie e aspettative, dietro ogni scorcio di uomini e cose. Per chi non ha dimestichezza con i “ferri del mestiere” è sempre utile conoscere come e con cosa una foto viene alla luce. Un po’ come quando a scuola si studiava la poesia italiana dei Romantici e qualche professore pseudo-progressista pretendeva di muovere comprensione e sintonia per i versi di Leopardi senza spiegare la sua dannazione nel corpo e nell’anima, la grazia inquieta di una mente geniale prigioniera di una “natura matrigna”. Così bisogna fare un passo indietro e conoscere gli strumenti di lavoro di Franco, come le note di una biografia essenziale, per entrare autenticamente nel suo universo, e apprezzarne la semplicità disarmante, la verità senza filtri e senza pose, la bellezza tranquilla, ma a tratti sorprendente, che ruba da uno scorcio parigino piuttosto che da un’arrampicata di pietre sotto il sole della Sicilia. Una Canon a tracolla, niente flash, niente cavalletto, ed ecco che tutto si fa più chiaro. Non servono grandi impalcature a Giovanni Franco per raccontare la sua realtà, davanti e dietro il velo dell’apparenza. E non è certo approssimazione o parsimonia tecnica, per uno che ama e studia da sempre il cinema e conosce a fondo la storia della fotografia.
È invece una scelta consapevole, uno stile, che fugge dalle acrobazie dell’intelletto per cedere al gioco, ben più avvincente, dell’emozione.
E ci riesce, con quelle che in un quadro sarebbero poche, efficaci scie di pennello, perché si arrende al colore e alla normalità del quotidiano che, catturato nell’istante perenne di una reflex, diventa teatro umano, rappresentazione dell’intero spettro di sensazioni e desideri che ogni singolo osservatore può carpire e conservare, del mondo, attraverso il mondo di un altro.
Un nuovo sito internet e un ebook dal titolo lieve ed emblematico di “Scattaiolando”, documentano la passione – di una vita, divisa fra il mestiere di cronista, che fiuta aneddoti e avventure anche là dove sembra esserci solo brulla pianura, senza scosse e senza vette, e il richiamo prepotente della macchina fotografica, come appendice di sé, come quaderno di appunti, come prisma che frammenta e ricompone la realtà.
Dalla grandeur di Parigi, che si fa dettaglio, minuzia, prospettiva inconsueta, monumento “fragile”, allo stupore genuino delle vedute madonite, di Sciacca e di Castelmola; dal duomo di Cefalù alle colonne di piazza San Pietro; dalle facce comuni alla natura abbagliante, dai pescatori ai bambini, dal pittore di strada al cuoco che dispensa pani ca’ meusa, dalle ragazze scintillanti che si tuffano in mare al giovane “poliparo”, dal rettangolo di Mediterraneo che appare salvifico dalla cornice di un vicolo al vecchio barbuto con la pipa da marinaio, tutto è fotografato, amato, rapito con la gioia candida di un ragazzo che guarda divertito la magia piccola della vita, che non si è rassegnato ai labirinti della filosofia di risulta, ma ha preferito battere le strade aperte dell’empatia, generoso e gioioso nel suo cammino di esploratore e narratore, interprete di tutto ciò che esiste ma spesso non è visto, che ci parla ma non viene ascoltato, che ci può cambiare, senza neanche che ce ne rendiamo conto. “Spade saranno sguainate per dimostrare che le foglie sono verdi in estate”, diceva Gilbert Chesterton, in polemica contro la febbre da dogmatismo della sua epoca. Eppure, forse, fuor di metafora, a volte è necessario armarsi – magari anche solo di una macchina fotografica – per mostrare il colore delle foglie, per sentire l’odore del vento, il fruscio delle reti al porto, per cogliere tutto lo splendore di un tempo, nel presente, che sembra uguale a molti altri, e invece è incredibilmente unico. Dietro l’obiettivo si può, con un linguaggio e una forza che sono accessibili a tutti. Le foglie sono verdi d’estate, ci dicono queste foto. Verdi e bellissime.
Oltre lo sguardo che frammenta e ricompone la realtà
Federica Certa, giornalista
“Mentre impari ad usare le storie dentro le storie voglio metterti in guardia sulla solita storia”, scriveva Richard Bandler. Una finestra si riflette in una pozza d’acqua, l’asfalto è grigio e materico, le persiane socchiuse invitano a saperne di più. Ciò che sembra essere una macchia di colore, in realtà è una incongruenza, uno scarto del racconto che ribalta la storia e si impone come elemento centrale: un coltello dal manico rosso, un aereo che vola accanto ad un gabbiano, un viso al sole tra le colonne. Anche il sontuoso balcone barocco ti dovrebbe dire altro, racconta una storia abbastanza consueta, ma qualcosa non torna nei vasi dai toni eccessivi o in una tenda scostata; un racconto dentro il racconto che non è mero procedimento narrativo, ma una naturale tendenza al paradosso dell’artista che ama ribaltare le prime sensazioni. Il giornalista Giovanni Franco sembra procedere lento in una presentazione paradigmatica di un contesto, in realtà sta coinvolgendo l’osservatore in una cooperazione narrativa: sfrutta la prospettiva e la valenza geometrica degli oggetti, satura con il colore valorizzando la terra, l’intonaco, l’acqua, fa di quest’ultima, che sia mare, pioggia o pozzanghera, uno specchio che riflette o allunga le forme, portando lo sguardo verso ciò che è tra le pieghe della realtà,il punto più denso che ti consente l’interpretazione del racconto. Il piede del pescatore che ferma la rete, le lingue di terra quasi “isole verdi su mari immobili”, come scrisse Quasimodo, le lame di roccia colpite da un mare epico,tutto richiama un intento letterario, la volontà di scardinare la solita storia . Che si tratti di mare o raggio di luce, il gioco dei riflessi è gioco di specchi ed è coinvolgente, perché l’autore richiede una complicità nello sfidare ad immaginare le storie dentro le storie. Ciò che colpisce è la fusione di una connaturata propensione alla narrazione con una tecnica che può a ben ragione definirsi pittorica. Le fotografie di Giovanni Franco sono proprie di un occhio e di una mente che vede attraverso forma e colore, avendo una estrema dimestichezza del rapporto tra l’uno e l’altro. I colori sono usati come elementi che costruiscono lo spazio, cosi come questo è definito dalla prospettiva e dall’uso delle diagonali. Le volumetrie sono chiare, le sbrecciature dell’intonaco diventano incastri geometrici quasi astratti, scaglie che delimitano piani, le foglie sul prato sono tasselli colorati, come si operasse una trasposizione, dalla realtà alla pittura, come se Giovanni Franco vedesse attraverso una lente che rende la natura arte.
Tasselli cromatici in un gioco di specchi
Rosana Rizzo, docente di Lettere

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Giovanni Franco

Giornalista dell'Ansa e fotografo